Ogni inizio anno arriva il momento di compilare la lista dei buoni propositi: in questo inizio 2023 invece abbiamo deciso di creare una elenco
dei quesiti che troveranno risposte lungo tutto l’anno appena iniziato.
Abbiamo deciso di affrontare questa analisi prendendo in esame l’analogia ispirata dal funzionamento della mente umana Il nodo borromeo è la raffigurazione di un nodo costituito da tre anelli intrecciati, se uno di essi viene separato, si liberano anche gli altri: un’idea proveniente
dal simbolo araldico della dinastia borromea.
Jacques Marie Émile Lacan è stato uno psicoanalista e psichiatra francese del XX secolo, una delle figure più importanti dello strutturalismo contemporaneo francese introdusse questo nodo nella psicoanalisi per rappresentare l’essere parlante, suddiviso in tre registri:
Lacan afferma che i tre registri sono presenti in ogni soggetto, e che il loro intreccio è necessario affinché la realtà di quest’ultimo sia coerente,
e per mantenere un discorso e un legame sociale con gli altri: in tal senso le diverse forme di intreccio determinano la struttura psichica.
Il 4° registro il sintomo che unirebbe reale, immaginario e simbolico ha l’effetto di “ancorare” il soggetto per collegarlo alla realtà e farlo adattare a essa. Agisce, dunque, come un’enclave che, una volta abbandonata, provoca la comparsa della psicosi. Un altro concetto essenziale è quello del “nome del padre”, che agisce come legge fondamentale, in quanto significante essenziale che consente di tenere insieme i tre registri. Lacan associa la funzione paterna di ancoraggio all’attività simbolica dell’individuo, quella che impone la legge. associare il nodo all’oggetto,
in quanto si tratta dell’altra faccia del desiderio che ci fa sentire come se mancasse qualcosa nella nostra vita, quindi collegato alla perdita.
L’oggetto, dunque, oltre a essere strutturato nei tre registri, è governato anche dalle pulsioni. Le pulsioni sono penetrate dal linguaggio
e spingono l’individuo a perseguire l’oggetto del suo desiderio. Quando soddisfa tale desiderio, raggiunge il piacere; quando non ottiene soddisfazione, si manifesta l’angoscia; infine, quando si oppone alla realtà, appare il fantasma. Il nodo borromeo rappresenta i legami che costituiscono la nostra struttura psichica. Il registro simbolico ci indica che il mondo è strutturato secondo leggi che regolano le interazioni ed è profondamente legato al linguaggio. L’immaginario ha a che vedere con l’immagine speculare del corpo, la quale ci consente
di identificarci. Infine, il reale è il registro legato all’esistenza, a ciò che è privo di significato e che è difficile da esprimere a parole:
quel mondo che il marketing di Zuckerberg vorrebbe farci immergere al più presto per contenere i danni di operazioni strategiche di un capitalismo della sorveglianza che non rispetta regole democratiche alimentato da azioni dark pattern delle BigTech nella guerra dei dati
in corso da anni e che dal 2024 il Digital Service Act dovrebbe imporre nuove regole e tutela dei diritti fondamentali dei servizi digitali in modo da creare condizioni di parità per promuovere l’innovazione, la crescita e la competitività per il mercato unico europeo. Il nodo borromeo quindi rappresenta la struttura psichica di ogni essere umano mentre il quarto registro, ovvero il sintomo, impedirebbe la manifestazione
di comportamenti psicotici: quelli che subiamo da anni in modo inconsapevole attraverso un uso smodato di app e social network gestiti da Big Player americani, russi e cinesi. Da questa analogia per intuire come funziona la nostra mente si può analizzare questa trasformazione del paradigma che invaderà la nostra quotidianità nel 2023. Una sfida per tutti è quella lanciata con questa disciplina sovranazionale il Digital Service Act la quale, analogamente a quanto accadde in passato ad esempio con il GDPR, la versione italiana del testo offre alcuni veri e propri errori di traduzione. Non si tratta di questioni interpretative, di punti dubbi in diritto nell’adattare istituti e concetti giuridici “neutri” del testo da unificare al nostro ordinamento, bensì di evidenti sviste in sede di traduzione del testo che ancora una volta recano conseguenti dubbi di interpretazione del codice. Per esempio si ritrovano “false friends”, aspetti ingannevoli sparsi nel testo tradotto dell’apparato sanzionatorio: a una prima lettura può sembrare che la violazione di quanto prescritto nel Capo II possa comportare le sanzioni amministrative dettate dagli artt. 52 e 74 DSA. Invece non è così: il Digital Services Act si potrebbe dire nato con due “anime”. La prima riguarda la disciplina delle condizioni per l’esonero di responsabilità (civile, penale o amministrativa che sia) dei provider circa contenuti illeciti forniti dagli utenti: ebbene, il mancato rispetto di tali condizioni non comporta sanzioni di per sé, bensì il venir meno del regime favorevole di esonero. E il provider dovrà così essere imputabile di responsabilità dell’illecito cagionato, caso per caso, con le conseguenze previste dalle normative (tendenzialmente nazionali) per tali responsabilità (tipicamente di risarcimento danni). Per i provider delle piattaforme, che dovranno adeguare molte loro prassi, contratti e comunicazioni ai nuovi standard. Per gli utenti ed enti che li rappresentano, che dovranno riuscire a destreggiarsi tra le pieghe e dubbi del testo per poterlo impugnare e far rispettare i propri diritti.
Per gli Stati membri, che pur a fronte di un Regolamento dovranno provvedere a integrazioni della propria normativa, specie quanto al piano sanzionatorio (potendo generare sensibili differenze territoriali che rischiano di frustrare l’obiettivo di armonizzazione). Per le istituzioni e autorità, che dovranno nascere o aggiungere carne al fuoco alle correnti attività (si veda il decisivo ruolo della Commissione). Per i consulenti, che dovranno adottare un approccio equilibrato specie di fronte ai mille dubbi interpretativi (si segnala la lodevole iniziativa di un osservatorio sul DSA, curato dall’Università di Amsterdam). Entro il 2024 si apre una nuova stagione “calda” come fu ai tempi del GDPR il nostro compito di innovatori etici e convinti che la sovranità economica dipenda da una sovranità tecnologica europea e che entro il 2024 le società italiane saranno pronte entro la data di applicazione nel 2024, rispetto alla rincorsa all’ultimo (o addirittura “postuma”) agli adempimenti privacy a cui si assistette nel maggio 2018, a fronte di un testo normativo pubblicato ben due anni prima. Il conto alla rovescia è iniziato e noi non resteremo a guardare mentre i dark pattern, usati per indurre utenti online a tenere comportamenti non del tutto consapevoli, rappresentano un tema molto attuale in relazione alla disciplina consumeristica e della privacy, tanto da essere ora diventati oggetto di attenzione del Comitato europeo per la Protezione dei Dati [EDPB] l’organismo europeo indipendente il cui scopo è garantire un'applicazione coerente del Regolamento generale sulla Protezione dei Dati e promuovere la cooperazione tra le autorità di protezione dei dati dell' UE. Il tema è inevitabilmente interdisciplinare oltre ai profili legali saranno necessari contributi di web designer, esperti di comunicazione e psicologi (cognitivisti), digital marketer, legali e tecnologici coinvolti in operazioni di legal design, disciplina che si prende cura dell’utente “posto al centro” a cui indirizzare la miglior comunicazione possibile, con la massima trasparenza a colmare eventuali asimmetrie contrattuali e informative. Il documento EDPB proprio come una sorta di prima guida al legal design delle interazioni titolari-interessato. Queste considerazioni rientrano in un contesto di abusi tanto più allarmanti se si pensa che incide ancor più significativamente sulle categorie più deboli e vulnerabili di utenti, come ad esempio i minorenni o analfabeti funzionali di un sistema che basa tutto il processo economico sul controllo dei dati personali degli utenti del web. Il documento è indirizzato all’uso dei dati personali raccolti tramite social media, collegandosi apertamente alle precedenti linee guida EDPB 8/2020 sul social targeting. ma sono indicazioni che non vanno circoscritte al solo ambito dei social perché gli stessi rischi e prassi si possono adattare anche in ambiti diversi, come la raccolta diretta di dati tramite siti web o app di diversa natura rispetto ai social. Questo documento costituire un punto di partenza per una revisione complessiva delle proprie prassi di interazione con gli utenti interessati. La difesa del consumatore, sotto questo punto di vista, ha indagato aspetti pertinenti al social engineering (tecniche per ottenere informazioni da una persona, di solito appannaggio della sicurezza delle informazioni e IT) e alla vulnerabilità della persona.
Il documento EDPB cita alcuni importanti studi pregressi sul tema, come il report Deceived by design del Norwegian Consumer Council oppure il report del CNIL Shaping Choices in the Digital World: From dark patterns to data protection: the influence of ux/ui design on user empowerment
Due sono le fondamentali definizioni per supportare la comprensione del testo molto ricco::
Contestualizzando i dark pattern entro il recinto della data protection, è evidente che si tratta di vulnus ai principi scolpiti nell’art. 5 GDPR, come la trasparenza e la correttezza, oppure ai requisiti di trasparente, adeguata, accessibile informazione di cui all’art. 12 GDPR o ancora al consenso informato ex art. 7 GDPR. Solo per menzionare i principali e più ricorrenti agganci normativi nell’analisi in parola. I principi dovrebbero essere comunque la stella polare di ogni compliance, in questo caso soprattutto nella progettazione dell’interfaccia utente, con una funzione “ombrello” soprattutto del principio di correttezza. Non da poco sono anche le annotazioni sulle possibili dimostrazione, in sede di accountability, della compliance coi predetti principi: “gli utenti devono spuntare una casella o fare clic su una delle diverse opzioni di protezione dei dati, gli screenshot delle interfacce possono servire a mostrare il percorso degli utenti attraverso le informazioni sulla protezione dei dati e spiegare come gli utenti stanno prendendo una decisione informata”. L’EDPB non scorda di riallacciare il discorso a quello già introdotto con le precedenti linee guida 4/2019 sulla privacy by design e by default, richiamandone le istanze che si erano classificate al tempo e che sono sottese alla tutela generale degli interessati: autonomia dell’interessato; interazione (tra interessato e titolare) per l’esercizio dei propri diritti; aspettative (ragionevoli) dell’interessato; scelte dell’interessato (ad es. circa la libera portabilità dei dati); equilibrio di potere tra le parti (anche adottando contro-misure compensative); assenza di inganno e manipolazione; veridicità delle informazioni fornite. Il rispetto di questi requisiti, di per sé, dovrebbe far evitare il fenomeno ingannevole di cui stiamo parlando.
Le macro-categorie di dark pattern intercettate dall’EDPB sono sei, modellate sulla base degli effetti provocati verso gli utenti
L’elenco delle tipologie – non esaustivo, precisa l’EDPB che invita sempre e comunque a valutazione caso per caso – è accompagnato, nel documento, da numerosi esempi concreti. L’analisi dell’EDPB si focalizza sul contesto dei social media e sottolinea che la protezione dei dati deve avvenire per tutto il ciclo di vita dei dati e della durata del rapporto titolare-interessato. Ciò comporta che l’analisi è suddivisa nelle fasi di tale ciclo di vita, ovvero:
Un esempio di un un caso di informazioni contraddittorie - macro-tipologia: “lasciare all’oscuro” - è ovvio che ciò porta all’incertezza negli utenti su cosa dovrebbero fare e sulle conseguenze delle loro azioni. Ne consegue, generalmente, che l’utente non prende alcuna decisione e mantiene le impostazioni predefinite dal social media, usualmente non improntate alla minimizzazione ma anzi alla massima condivisione dei dati. Ciò può essere amplificato grazie al supporto di tecniche di guida emotiva “emotional steering” i contenuti di accompagnamento e design (testi, immagini e colori motivanti e accattivanti) possono aiutare nel generare reazioni emotive e così aiutare a sorvolare sugli elementi da ponderare razionalmente. In questo caso l“l’illustrazione che rappresenta la fotografia di un simpatico animale che gioca con una palla […] può dare agli utenti l’illusione di sicurezza e comfort per quanto riguarda i potenziali rischi della condivisione di qualche tipo di informazione sulla piattaforma”. Da qui lo sfruttamento del lato emotivo della comunicazione. Poi si tratta dell’aspetto informativo: “D’altra parte, le informazioni fornite su come controllare la pubblicità dei propri dati non sono chiare. In prima istanza si dice che gli utenti possono impostare la loro preferenza di condivisione e il tempo che desiderano. Tuttavia l’ultima frase indica che ciò non è possibile, una volta che qualcosa è già stato pubblicato sulla piattaforma”. Qui arriviamo alla contraddizione e infine all’incertezza dell’utente. Nell’allegato finale alle Linee guida l’EDPB riassume la fattispecie e indica i principi GDPR violati: nell’esempio appena visto, sono elencati quello di correttezza (art. 5), di trasparenza informativa (art. 12), di consenso informato (artt. 4 e 7).
Nel secondo caso del “lungo addio”, utile per capire la necessità di sorvegliare tutto il percorso di interazione utente si tratta della disiscrizione al social media, la fase finale del rapporto. La sottotipologia è “più a lungo del necessario”, macro-tipologia è “ostacolare”. Come si può notare agilmente, gli utenti visualizzano prima una casella di conferma per cancellare il proprio account (dopo averlo richiesto con apposita opzione). L’EDPB ravvisa un poco di guida emotiva, tuttavia vi si può riconoscere una ratio di sicurezza sì da ottenere conferma dall’utente di un’effettiva volontà di cancellazione (potrebbe essersi sbagliato cliccando). Premendo su “Elimina il mio account”, tuttavia l’utente si trova di fronte a una seconda casella che chiede di motivare l’abbandono e finché non si è inserito qualcosa nella casella di testo non si può eliminare davvero il proprio account. Difatti il design prevede un pulsante associato all’azione di eliminazione definitiva che risulta inattivo e disattivato, fino al riempimento obbligato della predetta motivazione.
Questa pratica rende la cancellazione un iter più lungo del necessario, cioè uno sforzo e/o un tempo aggiuntivi obbligatori ma non necessari.
Il terzo e ultimo caso appartiene alla tipologia “sovraccaricare” e attraversa potenzialmente l’intero ciclo di vita del rapporto con l’utente. Lo strumento specifico è quello del “prompting continuo”: nell’esempio EDPB si ipotizza che il social media notifichi più e più volte lo stesso pop-up all’utente che continua a negare un consenso marketing, come ben mostrato nella linea temporale stilizzata di seguito (brillante esempio di design da parte della stessa EDPB).
La violazione della privacy utente è evidente, considerando che tale forma di pressione cerca di ottenere il consenso – non certo libero – attraverso la stanchezza dell’utente, tempestato di notifiche ripetitive fin dalla fase di registrazione dell’account e in molte occasioni successive. Si presenta anche un c.d. “effetto mirroring” se si pensa che – una volta reso il tanto sollecitato consenso – all’utente non si notificherà certo un popup che ricordi la possibilità di revocare lo stesso consenso. Oltretutto si noterà come vi sia sfruttato un ulteriore pattern, cioè “nascosto in bella vista”, a mente della diversa resa grafica tra pulsante di accettazione (molto evidente) e quello di rifiuto (quasi invisibile).
Oltre a fornire i citati casi, il Board mostra l’altro “lato della luna”, quello luminoso delle best practice positive, riconducibili a cinque fattispecie essenziali:
L’EDPB non analizza condotte che necessitano di uno stato soggettivo di dolo, di volontà ingannevole da parte del titolare che le pone in essere ma sarebbe sufficiente un presupposto colposo, specie se consideriamo ancora inquadrabile il trattamento di dati personali sotto l’egida dell’art. 2050 c.c. circa le attività pericolose e che verte su una presunzione di responsabilità (colposa). Ragion per cui si può andare esenti da responsabilità solo provando di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno. Quindi in considerazione delle puntuali ed estese indicazioni del Board, i titolari dovrebbero (ri)esaminare le proprie prassi di interazione con gli utenti/interessati, per ogni touch point, per tutto il ciclo di vita dei dati, per evitare di replicare perlomeno i casi censurati nel documento. Dopo il 2024 speriamo che non basterà pagare 725 milioni di dollari di META per risolvere definitivamente una class action in cui si accusava il social media di aver consentito alla società britannica Cambridge Analytica di accedere ai dati personali di 87 milioni di utenti - perché la rivendita di 87 milioni di dati personali valgono molto di più di 725 milioni di dollari - perché fake news come quella pubblicata da una nota della società di Zuckerberg nella quale si specifica che l’accordo è "nel migliore interesse della nostra comunità e degli azionisti" non avranno più nessun valore quando sarà rispettata la disciplina imposta dal Digital Service Act. Già nel 2019 l'allora Facebook aveva pagato 5 miliardi di dollari alla FTC e 100 milioni di dollari alla SEC che aveva accusato il social media di avere ingannato gli investitori sull'uso improprio dei dati degli utenti. Facebook ha concesso a numerose terze parti l'accesso ai propri contenuti e informazioni di Facebook senza il loro consenso senza monitorare adeguatamente l'accesso e l'utilizzo di tali informazioni e di fronte alle autorità, asserendo che si è solo copiata l’impostazione di terzi o che la soluzione di design era fornita da terzi o ancora che non ci si era resi conto delle possibili implicazioni negative. Nel 2023 non ci saranno più scuse: anche in Italia le indicazioni imposte da questo documento epocale dell’EDPB non possono più essere più "oscurate" e presto siamo convinti che queste indicazioni saranno utilizzate da parte dell’AGCM per vagliare eventuali pratiche commerciali scorrette e aggressive, lato consumeristico,
La missione del team di INNOVABILITA rientra in questo contesto di divulgazione di queste tematiche non rilevante solo per i titolari e la loro compliance, ma anche per gli utenti del web 3.0 gli stessi che dovrebbero avere maggiore familiarità con le possibili tecniche di “inganno”, così da attuare adeguati comportamenti di “coping”, di auto-difesa (cognitiva). Il riconoscimento di determinate tattiche nocive è fondamentale per addestrare la soglia di attenzione e decidere di attuare un comportamento difensivo, in risposta al tentativo coercitivo. Attiveremo presto campagne informative efficaci per “educare” collettivamente i consumatori/interessati per alfabetizzare quelli che oggi sono inconsapevoli “analfabeti funzionali” alle strategie di “DataWar” delle BigTech.
Circa il 90% della popolazione adulta mondiale risulta alfabetizzata e gli analfabeti risultava distribuiti per lo più nei Paesi in via di sviluppo. I livelli di alfabetizzazione raggiunti in qualsiasi Stato sono sempre più alti. Per tale motivo, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, si avvertì l’esigenza di creare un nuovo concetto di alfabetizzazione, superiore rispetto a quello classico. A tale scopo nacque il termine “analfabetismo funzionale”, un analfabetismo che indica l’incapacità – totale a parziale – di un determinato individuo nel comprendere e valutare in maniera idonea le informazioni che quotidianamente elabora. Il team interdisciplinare di INNOVABILITA sono anni che studia il fenomeno dell’analfabetismo funzionale poiché è un elemento fondamentale per lo sviluppo di modelli di innovazione aperta abilitante fondati sul concetto di “nodo di Borromeo”. Diventa ancora più urgente nell’attuale epoca digitale, dove vorrebbero mescolare con il fenomeno dell’analfabetismo digitale pur non esistendo una reale correlazione tra l’avvento di Internet e l’analfabetismo funzionale, ma i social media hanno reso pubblico sotto gli occhi di tutti il fenomeno dilagante. Un analfabeta funzionale, avendo difficoltà a comprendere informazioni e articoli, è più incline a credere a tutto quello che legge in maniera acritica, e per questo motivo condividono spesso informazioni false e dunque contribuiscono attivamente alla diffusione incontrollata delle cosiddette fake news. La digital illiteracy si intende l’incapacità delle persone di adoperare un computer e di districarsi tra le informazioni pubblicate nella rete Internet e può essere assoluto (dove c’è una mancanza totale di conoscenza nell’utilizzo di dispositivi digitali) o relativo (quando vi sono le conoscenze basilari). In riferimento a quanto già detto nell’articolo sull’analfabetismo funzionale, studiare tale fenomeno è fondamentale. Negli ultimi anni, l’analfabetismo digitale, ha frenato la crescita economica e ha contribuito all’esplosione del fenomeno delle fake news. Secondo l’OCSE, nel 2018, di tutta la popolazione italiana 15-65 anni solo il 37% sarebbe in grado di utilizzare Internet in maniera complessa e diversificata. L’Italia risulterebbe 28° su 29 Paesi analizzati. L’utilizzo poco consono dei mezzi digitale non sarebbe l’unico problema in Italia poiché nel Bel Paese, il 13,8% dei lavoratori occuperebbe posizioni ad alto rischio di automazione (media OCSE: 10,9%) e solo il 21% possiederebbe le capacità di prosperare in un mondo sempre più digitale (27° su 29 Paesi analizzati). Nello specifico, i giovani dai 16 ai 29 anni avrebbero un livello soddisfacente di competenze nell’utilizzo del computer, così come gli under 15. Il problema si evidenzia specialmente negli over 29: un terzo di essi non avrebbe alcuna capacità di comprensione dei sistemi tecnologici (media OCSE: 17%). Nel 2018 l’OCSE PISA ha valutato la conoscenza della matematica e delle scienze tra circa 600.000 studenti tra i 15 e i 16 anni in 79 Paesi. Queste due branche di studio forniscono infatti conoscenze utili per districarsi nell’ambito digitale e in generale per interpretare la realtà in termini razionali. Le capacità di comprensione in queste due materie sono state suddivise in 6 livelli. Per quanto riguarda la matematica, gli studenti del livello 1 possono rispondere a domande che coinvolgono contesti familiari in cui tutte le informazioni pertinenti sono presenti e le domande sono chiaramente definite. Al contrario gli studenti che raggiungono il livello 6 possono concettualizzare, generalizzare e utilizzare le informazioni sulla base delle loro indagini e creare un modello capace di descrivere problematiche complesse. Per quanto riguarda le scienze, gli studenti che raggiungono il livello 1 possono utilizzare le conoscenze scientifiche di base o di uso quotidiano per riconoscere aspetti fenomenici semplici. Al contrario, gli studenti che raggiungo il livello 6 possono attingere a una serie di idee e concetti scientifici interconnessi al fine di offrire ipotesi esplicative di nuovi fenomeni scientifici, eventi e processi o di fare previsioni. Interpretando i dati e le prove, sono dunque in grado di discriminare tra informazioni pertinenti e scientificamente rilevanti da quelle irrilevanti. In tutti i paesi dell’OCSE, il 74% degli studenti ha raggiunto il livello 2 o superiore in matematica. In Italia il dato è allineato alla media OCSE. Per quanto riguarda le scienze, nei Paesi dell’OCSE, il 78% degli studenti ha raggiunto il livello 2 o superiore; il 6,8% degli studenti ha raggiunto i migliori risultati (livello 5 o 6). I dati dell’Italia, più bassi della media, sono rispettivamente 75% e 2,8%.
La diffusione in Italia dell’analfabetismo digitale dipenderebbe, secondo più esperti, principalmente dai seguenti fattori:
Nonostante le differenze tra i Paesi, dai dati OCSE, emerge una situazione problematica diffusa a livello globale tra i Paesi sviluppati, solo pochi del Nord Europa e in Asia sembrano ad oggi in grado di affrontare “a pieno” la trasformazione digitale. Nel 2022 aumenta l’utilizzo di Internet tra i cittadini e le imprese, ma si riscontrano grandi differenze tra le famiglie con almeno un minorenne, molto più propense all’utilizzo di internet, e tra le aziende di piccole e grandi dimensioni. Solo quest’ultime sembrano utilizzare le potenzialità di internet a 360° ma per combattere l’analfabetismo digitale, si dovrà perseguire una nuova politica diffusa di inclusione digitale che coinvolga l’Italia intera. Solo così si potranno porre le condizioni per una nuova cultura dell’innovazione aperta abilitante anche in Italia, seguendo per esempio i seguenti punti:
Il comitato olimpico italiano si sta mobilitando per far diventare Milano e Cortina città intelligenti e accessibili entro il 2026: la verità nascosta è che le città non saranno mai realmente “intelligenti” se non si applicheranno politiche sociali finalizzate a far acquisire una nuova consapevolezza del cittadino italiano alfabetizzato. Scoprire che l’'apprendimento permanente” non è un’attività che riguarda solo le nuove generazioni, ma tutte e tutti in un’ottica di potenziamento delle proprie competenze e aggiornamento del sapere in un’epoca sempre più virtualizzata e “data driven” è necessario assumersi una nuova responsabilità sociale e politica per la salvaguardia della propria privacy e di un disegno più eco-sostenibile del proprio ecosistema di riferimento: i nostri figli con noi non dovrebbero diventare più intelligenti grazie alla tecnologia, ma un uso consapevole e più critico degli strumenti digitali ci dovrebbe rendere più “attenti” in una società sempre più distratta.
Prendendo come riferimento il programma OCSE PISA (Programme for International Student Assessment) sono 6 i livelli di alfabetizzazione principali:
Sotto il livello 1 si può parlare di analfabetismo totale. La maggior parte degli studiosi considerano il livello 3 come livello base per garantire un corretto inserimento nelle dinamiche della vita sociale, economica e occupazionale.
Stimare il numero di analfabeti funzionali di un Paese è un procedimento complesso. In Europa, nel 2016, gli analfabeti funzionali che non raggiungevano il livello 3 ammontavano a circa 80 milioni di individui. L’OCSE PISA del 2015 indica che il 20,9% della popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni (circa 8 milioni di persone) non supera il livello 1. Il livello 2 è raggiunto dal 25,4% (circa 9,9 milioni di persone). Il livello 5 è raggiunto dal 5,1% (circa 2 milioni di persone), mentre il livello più alto, il 6, dal solo 0,6% (circa 230.000 persone). Si può parlare dunque di una percentuale di analfabeti funzionali che non raggiungono il livello 3 di circa il 46,3% della popolazione tra i 16 e 65 anni. L’Italia si colloca al di sopra della media OCSE, pari al 43,3%. Nel grafico sottostante, si possono osservare i dati del 2015 relativi all’Italia e ad altri Paesi OCSE. I Paesi sono ordinati dall’alto in basso per quota decrescente di analfabeti funzionali (≤ livello 2). Ciò che emerge è che circa il 23% degli studenti 15-16 anni dei Paesi OCSE non raggiunge almeno la competenza di livello 2 nella lettura. Questi studenti non sono in grado di identificare l’idea principale in un testo di lunghezza moderata, trovare informazioni basate su espliciti, anche se a volte complessi, criteri, e riflettere sullo scopo e la forma dei testi. In Italia tale dato, poco al di sopra della media, è pari al 24% e risulta stabile rispetto al 2015.
Secondo l’OCSE e l’ISFOL, l’analfabetismo funzionale non riguarda una specifica fascia della popolazione italiana; colpisce trasversalmente diverse fasce demografiche. Detto ciò, i dati riescono a fornire un identikit piuttosto preciso di coloro che sono più soggetti a questo fenomeno:
Il fenomeno va arginato tra le generazioni future, ma anche tra coloro che si trovano nella mezza età. Molto spesso si parla infatti
di “analfabetismo funzionale di ritorno“. Il fenomeno si verifica quando un soggetto, non esercitando per un periodo prolungato la propria vena creativa e critica (attraverso lo studio, la lettura o l’informazione), subisce una vera e propria diminuzione delle capacità precedentemente acquisite. Per contrastare il dilagare di questa piaga sociale, i più importanti istituti di ricerca sul tema sostanzialmente suggeriscono le stesse strategie:
METACADEMY.TECH e MADEINITALY.TECH sono strumenti concepiti per la diffusione di una nuova cultura digitale basata su modelli di innovazione aperta abilitante e un approccio gamificato al “lifelong learning". Nel 2023 lanceremo la sfida alle istituzioni e enti di ricerca e di formazione per combattere con una nuova cultura imprenditoriale l’analfabetismo funzionale di molti nostri collaboratori che non hanno ancora intuito il valore dell'innovazione aperta e del cambio paradigma dettato dall’economia del web 3.0.
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